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TRUMAN CAPOTE – A SANGUE FREDDO
(CAPOTE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 aprile 2006
 
di Bennett Miller, con Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Clifton Collins jr., Chris Cooper, Bruce Greenwood (Stati Uniti, 2005)
 
Truman Capote impiegò cinque anni per portare a termine il proprio capolavoro, A Sangue Freddo. Colpito dal massacro dei quattro membri di una famiglia nella campagna del Kansas compiuta da due disperati per un bottino di cinquanta dollari, lo scrittore brillante e mondano di Colazione da Tiffany si precipitò in quel novembre del 1959 sui luoghi con l'intenzione di scrivere un articolo per Il The New Yorker. Rimanendone prigioniero per sempre. Creativamente: inventando cosi con quel suo capolavoro la “non-fiction novel”, che ancora oggi prosegue trionfalmente i propri successi. E personalmente: in un processo d'identificazione con uno dei due assassini, nel quale riconoscerà certi aspetti della propria infanzia segnata da una madre alcolizzata e dalla nascita delle proprie tendenze omosessuali. I due verranno inevitabilmente giustiziati nel 1965, anche in seguito alle dilazioni permesse dall'aiuto fornito da Capote. Ma, nel frattempo, la personalità dello scrittore ne risulterà lacerata per sempre. Con, da un lato, identificazione e la pietà per una esperienza cosi a lungo protratta nel braccio della morte accanto ai due; e, dall'altra, l'altrettanto inevitabile e cinico pragmatismo di volerne finalmente la morte per poter rendere conto di “come andrà a finire”. Di come poter terminare il proprio romanzo di successo.Tutto ciò risalta (talvolta fin troppo esplicitamente, come nelle sequenze di pietas carceraria, o dell'ansia colpevole per la soluzione finale) nel film di Bennet Miller, sorprendente esordiente che giunge dal documentario. E nella sceneggiatura, straordinariamente sovrapposta a quella dell'esperienza letteraria di Capote, di Dan Futterman. E finisce per essere esaltato, come ormai tutti sappiamo dopo un meritatissimo Oscar, dallo straordinario mimetismo proposto da Philip Seymour Hoffman; da una impeccabile direzione di attori che finisce per premiarli tutti.

Ma questo secondo A SANGUE FREDDO (il primo essendo quello assai più ligio di Richard Brooks nel 1967) vanta altri titoli di merito. Di questo avvicinamento dell'artista alla cronaca, della fantasia alla realtà, colpiscono l'originalità nella costruzione della sceneggiatura, dei tempi insolitamente allentati; cosi da concedersi all'osservazione ed alla riflessione, oltre che al ritmo particolare dell'interpretazione di Seymour Hoffman. Viaggio all'interno non solo di un personaggio eventualmente eccentrico e turbato: ma della fatica del capire e del creare che è di ogni artista, che potrebbe essere di tutti. Dal voyeurismo della cronaca alla pena della pagina bianca, nella provvisorietà anonima delle stanze dei motel; cosi distante, ma cosi indispensabile nei confronti delle brillanti e ridanciane bolle di champagne dei circoli letterari. In quel confronto sempre più insopportabile fra l'astrazione del destino artistico e la fisicità brutale di quello dei due condannati, fra l'uso sempre più ineluttabile della morte per la ricerca della verità nella vita finiscono allora per evidenziarsi molti degli interrogativi che tormentano l'artista.


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